[Sara Cimino]
A un vincitore nel pallone
Di gloria il viso e la gioconda voce
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Nè la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
II caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
[Giacomo Leopardi]
Fra gli oltre diecimila spettatori che affollavano lo Sferisterio di Macerata in un giorno di autunno del 1821, c’era un uomo tutt’altro che anonimo, che tuttavia si confondeva con facilità tra le orde di tifosi accorsi dai paesi circostanti per incitare i loro campioni. Un’ordinaria partita di palla col bracciale si stava per trasformare in letteratura. Nei tornei le partite si disputavano all’interno dello sferisterio: una struttura che aveva una forma circolare e il suolo ricoperto di sabbia. Ancora oggi ce n’è uno visitabile a Macerata.
Il Conte Giacomo Leopardi, strappato alle sue “sudate carte”, perfettamente calato nei panni di un uomo del suo tempo, in un giorno di festa si recò ad assistere all’evento sportivo del momento. Così, in un attimo qualunque, avvenne il confronto indicibile: da una parte Giacomo Leopardi, l’uomo riflessivo, dal multiforme ingegno, con un fisico fragile che lo tradiva non appena tentava di compiere uno sforzo fuori dall’ordinario; dall’altra Carlo Didimi, il campionissimo della palla col bracciale, forte e vigoroso, scoppiante di vita e di salute. Fu l’incontro tra due personalità ardenti: in Carlo Didimi, Leopardi ritrovò il fascino degli eroi antichi che con le loro imprese tanto avevano infiammato la sua immaginazione e, allo stesso tempo, e vide in se stesso o meglio, nella sua giovinezza ardente, anche tutto ciò che non poteva essere e non sarebbe mai stato.
Inoltre, a Carlo spettava già in vita la gloria che Giacomo avrebbe conosciuto solo dopo la morte.
E’ un testo che parla a noi poiché di mezzo c’è l’agonismo, il sèguito delle folle che si appassionano allo sport e la possibilità che lo sport valga come promozione, motivazione della propria persona ma anche della propria vita, dei propri ideali. Nella prima strofa c’è tutto l’entusiasmo, il fervore, il vociare, le grida del pubblico assiepato che sostiene il proprio beniamino, il quale è presentato come un giovane nobile un “magnanimo campion”. E quello che lo connota soprattutto è la “sudata virtude”, parola perno in questo testo poiché nella sua composizione troviamo la parola “virtus” che a sua volta contiene la parola “vir” = uomo. Ciò significa che attraverso le sue gloriose azioni in campo, l’atleta vincente potrà dimostrare il suo essere uomo, il suo compiere grandi azioni. Leopardi recupera un’idea che era radicata nel mondo antico, in cui l’uomo contava come cittadino e quindi come guerriero in grado di salvare la propria patria, l’atleta e il guerriero coincidono. Non dobbiamo però dimenticare che siamo davanti ad un testo leopardiano dove la natura non può non essere presente; in un primo periodo è benevola nei confronti degli uomini perché dona loro la capacità di illudersi, il che assicura un approdo ad una forma di piace, è come se la natura soccorresse gli uomini, ed è proprio questo che Leopardi esprime in questo testo: “A noi di lieti inganni e di felici ombre soccorse natura stessa”.
Nelle ultime due strofe non ci sono più slanci vitali, non c’è nessuno che riesca ad incarnare le virtù di un tempo eccetto l’atleta. In questo senso l’agonismo sportivo diventa uno strumento di rivalsa, un tramite per superare l’inerzia dei patrioti e per superare anche l’infelicità umana; infatti, nell’ultima parte del testo è nel momento della prova, della difficoltà, negli sforzi e nei pericoli, che l’anima può realmente dimenticarsi, può obliare la propria vana condizione e può attingere ad una forma di felicità che consiste in un piacere passeggero. Tipicamente leopardiano è il momento in cui la felicità coincide sempre con qualcosa di temporaneo e gli uomini devono esserne consapevoli. Alla luce di ciò l’esortazione finale all’atleta, al conte Didimi, è un invito ad ergere la mente fino al cielo per se stesso e ad attingere a questa forma, seppur momentanea, di beatitudine.
Nella vita giochiamo la nostra partita, magari non saremo bravi come il conte Carlo Didimi, ma alla fine la giochiamo comunque. L’unica differenza del gioco è che non c’è nessun vincitore nella vita, perché in fondo l’unico vero premio è dare il proprio meglio, l’unico vero premio è nutrirsi di quell’attimo così fuggente della felicità. Anche se, saremo sempre eternamente soli soprattutto in mezzo a persone che ci acclamano ed elogiano, anzi, forse è proprio in quel momento che sentiremo dentro un profondo senso di solitudine. Ma quando la partita sarà terminata, viaggeremo verso il nostro infinito.