Tempus fugit

[Maria De Grazia]

Oggi come non mai, anche a causa della delicata situazione di emergenza che stiamo vivendo, ci viene chiesta, e viene anche pretesa, la perenne reperibilità. E’ troppo spesso dimenticato che la tecnologia può e deve essere usata unicamente come strumento e non come fine; infatti c’è bisogno che si crei un perfetto equilibrio tra soggetto e oggetto dove, fatta eccezione per la necessità dell’oggetto, l’elemento fondamentale e attivo resta il soggetto, l’uomo. È proprio questa distinzione che fa di noi uomini degli esseri dotati di ragione, e delle cose soltanto dei mezzi utili al nostro sviluppo e alla nostra esistenza.

L’utilizzo della tecnologia per lavorare o per studiare, che in questo momento storico diventa necessaria, dovrebbe essere giusto e moderato, senza oltrepassare quella soglia che fa dell’uso un abuso. Tutto può essere ricondotto alla massima di Orazio, che affermava “est modus in rebus”: c’è una misura nelle cose. Quindi, la parola chiave per vivere questo rapporto necessario con la realtà è “metriotes”, che coincide con la misura intesa come equilibrio e comporta il saper prendere la giusta distanza dagli eccessi.

È ormai da quasi un anno che facciamo i conti con un’emergenza sanitaria che ha stravolto le nostre vite, inizialmente incompatibili con una pandemia. Specialmente in occasione del primo lockdown nazionale, abbiamo imparato ad apprezzare di più il tempo a nostra disposizione. Ci è stato chiesto di rimanere in casa e di essere altruisti, per proteggere noi e gli altri. Abbiamo conosciuto una situazione a noi estranea, fatta di momenti interminabili e silenzio, momenti che non appartenevano alle nostre vite frenetiche e dinamiche. Questo periodo di lockdown ci ha insegnato due cose, apparentemente in antitesi. Da una parte siamo stati catapultati nel mondo dello smart-working, delle video conferenze, degli interminabili pomeriggi passati davanti al computer per consegnare in tempo tutti i lavori. Eppure, allo stesso modo, abbiamo conosciuto il piacere del tempo dedicato alle nostre passioni; “tempo nostro” in cui abbiamo spento ogni tipo di connessione con l’esterno per preparare una torta, per fare attività fisica oppure per passare del tempo con la nostra famiglia, magari di fronte a un gioco di società. Forse è stato proprio in quel momento che tutti noi abbiamo riflettuto sull’importanza del tempo, tempo che una volta trascorso non torna più.

Il tempo è un tema che fin dall’antichità interessa tutti i saggi e gli studiosi: da Orazio a Seneca, da Leopardi a Proust. Ognuno ne offre un’interpretazione originale e figlia del proprio tempo, frutto di autonomi studi letterari e filosofici. Ricordiamo Orazio per il suo celeberrimo “carpe diem” che rimanda alla dottrina filosofica epicurea, nel quale raccomanda agli uomini di vivere intensamente ogni momento come fosse l’ultimo, senza imbattersi nell’immaginazione del futuro, perché essa è causa di ansia e angoscia. Orazio dunque, crede che la vita sia un’esperienza breve caratterizzata dall’ inesorabile scorrere del tempo. Diversa è invece la posizione stoica di Seneca, che crede che il tempo destinato alla nostra esistenza sia lungo; se risulta breve, è perché gli uomini lo riempiono di attività futili e superficiali. Per questo è importante imparare a impiegare il proprio tempo in attività virtuose e a saper occupare il presente, unico frangente della vita che l’uomo può controllare. Seneca quindi, ha una visione legata a una concezione qualitativa del tempo, non quantitativa. Apparentemente, le due filosofie potrebbero sembrare simili, con la presenza di qualche analogia, poiché entrambe insistono sull’importanza di saper impiegare al meglio il proprio tempo. Eppure, la loro differenza sta alla base. Orazio aderisce all’epicureismo vista la sua concezione pessimistica del futuro; mentre invece, l’atteggiamento di Seneca è riconducibile al suo intento di voler plasmare gli uomini e di volerli immettere sulla via della saggezza. Le due filosofie sembrano trovare un punto d’incontro unicamente sull’incertezza del futuro: il domani infatti, non è garantito.

L’incertezza del futuro ritorna prepotentemente anche il Leopardi, anche se secondo una chiave decisamente più pessimistica e che sembra essere molto più vicina all’epicureismo di Orazio. Ad esempio, nella poesia “Il sabato del Villaggio”, Leopardi invita il “garzoncello scherzoso” a godere al massimo del suo presente, perché probabilmente il futuro sarà molto diverso da quello immaginato durante l’infanzia e l’adolescenza.

Oggi come non mai, l’incertezza del futuro ha un peso lacerante sulla nostra esistenza. Non sappiamo se e quando potremo tornare ad avere il pieno controllo delle nostre vite; non sappiamo cosa ci dovremo aspettare dal mondo post-covid. Però, volendo fare tesoro dell’insegnamento di Seneca, adesso noi tutti abbiamo il controllo del nostro presente. Sta a noi rendere la nostra vita lunga, riempiendola il più possibile di bellezza e di attività positive per la nostra crescita personale. 

Stiamo vivendo una condizione certamente drammatica, ma che ci mette a disposizione la cosa più preziosa di tutte: il tempo. Ciò che secondo Seneca ci renderebbe saggi, sarebbe il saperlo sfruttare al massimo, senza lasciare neanche un secondo alla banalità. Forse questa è la nostra occasione per migliorarci, per crescere e per raggiungere l’ideale del saggio tanto decantato dal filosofo. Riempiamo il nostro tempo di lavoro, di studio, ma quando è il momento, troviamo il coraggio di spegnere i nostri computer, i nostri smartphone per abbandonarci al privilegio della riscoperta del nostro tempo.