Recensione: MÅNESKIN “Rush”

[Pierluigi Talarico]

Il 20 gennaio esce per Sony “RUSH!”, l’ultima (personalmente indesiderata) fatica dei famigerati Maneskin.

“RUSH!” è il terzo lavoro in studio per la band romana, preceduto dagli alquanto evitabili (e spesso dolorosi) “Il ballo della vita” (2018) e “Teatro d’ira – Vol.1” (2021) che ci avevano già fatto intendere di che pasta (inesistente) fosse fatta la band. L’album nei mesi precedenti alla pubblicazione ha subito una costruzione mediatica gigantesca, che ovviamente (considerando i componenti della band) qualitativamente non regge.

Il risultato risulta essere artificioso, poco onesto, anzi a dire il vero i momenti più sinceri durante l’ascolto risultano essere a livello compositivo i più deboli, ributtandoci talvolta nelle immature ed adolescenziali sonorità de “Il ballo della vita”.

Si ha l’impressione che oramai i quattro musicisti romani siano caduti in un qualcosa più grande di loro, in un sistema (quello discografico) che li ha catturati e li sfrutterà fin quando avranno qualcosa da dare, ovviamente non in termini artistici (pressoché inesistenti), ma nelle logiche del mercato, per cercare di dar fiato ad un mondo, quello discografico, morente. Sono più importanti le noiose e banali scenette prese in prestito da un mondo, che almeno spiritualmente non gli appartiene, quello del rock, e le collaborazioni commerciali (vedi Gucci), che le note suonate e la musica in sé. Tutto ciò amplificato dopo la vittoria dell’Eurovision Song Contest (il Festivalbar europeo) che li ha resi noti a livello mondiale. Per capire le intenzioni del disco basti pensare che per loro la Sony sceglie come produttore Max Martin: l’autore e il produttore (solamente dietro alla coppia McCartney – Lennon) che più di tutti ha avuto canzoni n°1 o top3 nella chart di Billboard nella storia della musica, e affiancano ai Maneskin, che firmano d’ufficio le 17 tracce del disco, 15 (si, ben quindici!) autori e produttori diversi, vi risparmio l’elenco, che hanno lavorato con artisti della scena rock e metal del calibro di:

Justin Bieber, Britney Spears, One direction, Jennifer Lopez, Katy Perry, BTS, Beyoncé, Backstreet Boys, Shawn Mendes, Camila Cabello, Maroon 5, Marshmello e potrei andare avanti allo sfinimento.

Vengono riciclate le idee che commercialmente hanno funzionato nell’album precedente, vedi le collaborazioni con artisti leggendari della storia del rock (prima Iggy Pop e ora Tom Morello) ispirati da un progetto artistico chiamato “milioni di dollari”, aggiungiamo un po’ di testi privi di significato, cliché e banalità in quantità industriali, risicate capacità sugli strumenti e per ultimo (ma non per importanza) un cantante che fa rimpiangere Pupo ai tempi d’oro per quanto insopportabile, e abbiamo ottenuto “RUSH!”.

Il disco si apre (ahimè) con OWN MY MIND: che è un brano dove tutto risulta sentito e risentito, le chitarre di Thomas Raggi sarebbero state in voga 25 anni fa, ma già all’epoca sarebbero risultate banali.

Non c’è nulla di interessante nella parte ritmica (basso e batteria), anzi è già un miracolo che Victoria negli anni un basso abbia imparato ad impugnarlo. Il cantato di Damiano è più insopportabile di Pierluigi Diaco, e per finire non si ben comprendere di cosa parli la canzone (deficit mio?).

Nel complesso però tra il pattume di questo disco risulta essere una delle canzoni meglio riuscite, con una melodia che facilmente si intrufola in testa.

GOSSIP (feat. Tom Morello): è probabilmente la hit che traina il disco, ma all’ascolto non si riesce a trovare altro che non sia cliché o banalità.

L’analisi della canzone è uguale alla precedente (i brani bene o male sono tutti gli stessi). Spicca in più però la collaborazione con la star mondiale Tom Morello chitarrista ex RATM, Audioslave, Bruce Springsteen ecc, il chitarrista che ormai di grande ha solo il nome, aggiunge un atroce, doloroso e crudele assolo, lo stesso identico, reiterato da 25 anni.

Tom come direbbero a Cosenza “nun cha fazzu cchiù”.

TIMEZONE: quando ho ascoltato questo pezzo per la prima volta ero sbalordito, incredulo, ho pensato non fosse un brano appartenente al disco, ma un inciso scritto per una serie adolescenziale come I-Carly o Victorius e che per sbaglio fosse capitato nelle mie orecchie; ho realizzato poi che fosse una canzone scritta per i Maneskin. Non c’è bisogno di descrizione, indecoroso, uno dei momenti più bassi (e ce n’è sono) dell’intero album.

BLA BLA BLA: canzone banalissima, idee prese in prestito un po’ da MAMMAMIA, e un po’ da I WANNE BE YOUR SLAVE. L’intro con Damiano che “canta” ha-ha-ha-ha-ha-ha è talmente imbarazzante che tocca il fondo e per catarsi diventa meme.

BABY SAID: un’altra hit che traina l’intero disco, non voglio essere ripetitivo, leggete i difetti sopra. Brano comunque migliore (non che ci volesse tanto) dei due precedenti.

GASOLINE: leggi BABY SAID, stessa descrizione, inoltre il testo ovviamente non significa nulla, anzi proporrei un uso diverso della benzina.

Ps: un suono distorto non è sinonimo di linee interessanti sul basso, quelle sono inesistenti in tutta la loro discografia.

FEEL: volete male a qualcuno? Fategli ascoltare Damiano che canta sto pezzo.

Sul piano strumentale solita roba, cliché, cliché e ancora cliché. Testo imbarazzante.

Brano inutile.

DON’T WANNE SLEEP: meglio 2 minuti e 36 secondi di plank.

Damiano non è sopportabile, per il resto devo ripetermi? Non credo.

Si somma solamente un assolo di Thomas Raggi che trasuda di roba vecchia e vetusta, male male.

KOOL KIDS: quando pensi che non ci sia mai fine al peggio, ecco qui KOOL KIDS, non ho la minima idea e non voglio sapere cosa passasse per la testa a Damiano (o chi musicalmente ne fa le veci) quando ha pensato che cantare in quel modo potesse essere una buona idea.

Uno dei momenti più bassi del disco, adornato da parte strumentali (un altro assolo assolutamente non richiesto) che sembrano scritte dall’intelligenza artificiale per quanto telefonate.

IF NOT FOR YOU: quando pensi non ci sia mai fine al peggio, ecco qui IT NOT FOR YOU, una ballad di cui non parlerò perché non voglio utilizzare parolacce.

READ YOUR DIARY: 2 minuti e 31 secondi di dolorosa inutilità. Thomas basta con questi assoli, cazzo.

MARK CHAPMAN: inizia qui il momento italiano del disco, per le prossime tre canzoni avremo testi non scritti in inglese, cambia qualcosa? Assolutamente no.

Sono le uniche canzoni non scritte da autori internazionali, quindi di conseguenza risultano essere i momenti più sinceri, anche se emergono tutte le lacune compositive appartenenti ai quattro musicisti.

La canzone è all’ascolto banale, ma sicuramente è un momento migliore rispetto ai precedenti, grazie anche al testo, che parla dell’assassino di John Lennon e dell’ossessione nei suoi confronti. Comunque nulla da ricordare.

LA FINE: tutto trito e ritrito, prendono spunto un po’ di qua e un po’ di là, anche dalla loro discografia, canzoni che hanno l’unico scopo di allungare il brodo, già eccessivamente lungo.

Interessante il fatto che ogni volta si ascolti un riff di Thomas Raggi nella testa si pensa: “ma sta roba dove l’ho già sentita?”

IL DONO DELLA VITA: ballad eviratrice.

MAMMAMIA: il titolo è già esplicativo, come si fa a pensare ad un qualcosa del genere? Non c’è una singola cosa giusta in questo pezzo, si prova solo imbarazzo all’ascolto.

“They ask me, why so hot?

‘cause I’m italiano

oh, mamma, mamma mia”

SUPERMODEL: altra super-hit, stesso principio di BLA BLA BLA, raschia il fondo e per catarsi diventa meme. Grazie pubblicità della Tim per farmela ascoltare ogni giorno.

THE LONELIEST: finalmente l’album è finito, ma beccati prima sta ballad, perché le due di prima non erano sufficienti. Forse è la più riuscita, ma poi inesorabilmente parte un doloroso, dolorosissimo, impietoso, impietosissimo assolo di Thomas Raggi che copia Tom Morello, perché lui non era bastato. C’è dolore.

I maneskin, come già detto, sono un fenomeno creato e gonfiato ad hoc da un establishment che vede in loro la possibilità di guadagnare miliardi di dollari, e quest’album ne è la conferma definitiva.

Tutte le loro azioni come il mostrarsi nudi, distruggere gli strumenti sul palco, i falsi matrimoni, hanno lo scopo di creare quel vestito rock che una volta indossato li rende trasgressivi quanto basta per essere appetibili e perfetti alle logiche del mercato discografico. Ma in realtà è tutto fumo e pochissimo arrosto, tolto l’artefatto velo rock sulla loro musica si svela un pop banale e mal fatto, che all’ascolto risulta essere ridondate. Le intenzioni e la realizzazione di questo disco lasciano un unica dimensione a queste tracce, quelle di musica da supermercato, da ascoltare distrattamente mentre si ha altro da fare, ma a volte è meglio il silenzio. VOTO 3.5